
Scrivere un’autobiografia non è semplice, non riguarda solo un percorso intimo e personale di quanto vissuto, ma diventa anche un dialogo con il mondo che ci circonda, perché la nostra storia si intreccia con la storia di ambienti, persone incontrate, animali, oggetti… e ognuno di questi elementi acquista un valore simbolico, penetra dentro di noi e si fa esso stesso narrazione.
Qualche giorno fa un’amica mi ha donato un bonsai e non sarà una presenza inerme e immobile, utile solo per adornare la casa, perché ha in sé, nella concezione orientale, un senso simbolico che, in questo tempo di trasformazione per me, acquista un valore speciale: farà parte della mia storia, la racconta e alla pianta ho anche affidato il nome di un personaggio, protagonista del mio romanzo, quale rappresentazione di un percorso creativo, di cura della mia anima, libera di volare oltre le proprie paure.
Insomma, la mia storia, un giorno che la scriverò, si nutrirà di tante narrazioni simboliche che hanno costellato le tante esperienze vissute o le molteplici vite attraversate.
Vorrei, con questo articolo, ripercorrere le diverse concezioni simboliche che arricchiscono la scrittura, a iniziare dagli elementi stessi che la compongono: quando scriviamo a mano, la nostra calligrafia diventa essa stessa simbolo di un nostro stato interiore, diventa essa stessa immagine dei pensieri che affidiamo alla pagina bianca.
GRAFOLOGIA: STUDIARE IL TRACCIATO DELL’ANIMA

La grafologia è una tecnica di analisi con cui è possibile dedurre alcune caratteristiche psicologiche di una persona attraverso l’analisi dei tratti calligrafici.
Non c’è nulla di scientifico e in ambito forense non sono considerate prove attendibili, però ha in sé qualcosa di affascinante e che ci porta a riflettere su come noi, attraverso la scrittura e in modalità simbolica, manifestiamo la nostra individualità.
Quando scriviamo, attraversiamo una forma di linguaggio personale evocando nostri sentimenti, stati d’animo che solo chi ha “il codice” per decifrarlo, può comprendere, chi cioè ha quegli strumenti che oltrepassano il segno grafico, fino ad arrivare alle profondità della coscienza o della subcoscienza.
Pensiamo innanzitutto allo spazio che occupa la scrittura, quale consistenza noi imprimiamo alla penna, se preferiamo un tocco leggero, oppure più forte o incisivo: se siamo agitati, nervosi, sofferenti, di certo la nostra grafia ne risentirà, non sarà limpida, ma quella mano graffierà la carta con la stessa energia con cui il dolore ci graffia l’anima.
Lo spazio, in particolare, ovvero la carta su cui scriviamo, rappresenta l’ambiente dove interagiamo, ne stabiliamo i confini, i margini precisi su cui la nostra mano si muove, come nella vita stabiliamo i limiti del nostro cammino.
E sulla pagina noi possiamo muoverci verso destra, verso il nostro futuro con coraggio. Oppure con nostalgia e un pizzico di paura, possiamo muoverci verso sinistra, volgendo il nostro sguardo sul passato, su chi siamo stati ieri. Ma al centro del foglio c’è l’intelligenza emotiva e razionale con cui operiamo, con creatività andando verso l’alto o in ascolto dei nostri istinti se procediamo verso il basso.
In definitiva, la grafia è il simbolo stesso della nostra scrittura consapevole, anche se stiamo scrivendo parole “neutre”, la mano interpreterà sempre cosa noi proviamo in quel momento e, di conseguenza, quel tratto che la penna inciderà sulla pagina con la giusta energia, sarà la nostra narrazione, seppur nascosta a chi legge.
Ed è la stessa energia che noi imprimiamo nella nostra vita, quando ci muoviamo negli spazi in cui interagiamo con le altre persone, come in casa, in ufficio, per la strada: avvertiamo sempre la necessità di lasciare un “segno” della nostra presenza o del nostro passaggio, di scegliere come gli altri possano vederci o come noi stessi desideriamo essere allo specchio.
E attenzione, a volte anche il “non scritto” ha il suo valore simbolico nella narrazione di noi stessi: quegli spazi vuoti, come il silenzio, spesso lasciano il tempo all’ascolto, alla riflessione, all’attesa, nella ricerca costante di armonia tra parole, pensiero e azione.
QUANDO UN OGGETTO DIVENTA MEMORIA, SIMBOLO DI UN VISSUTO

Viviamo ogni istante della nostra vita immersi in continue esperienze sensoriali, a contatto giornaliero con una miriade di oggetti che rientrano nella definizione di “immagine esterna”.
Se prendiamo il vocabolario della Treccani e cerchiamo la parola “immagine” troviamo scritto, in modo generico:
“Forma esteriore degli oggetti corporei, in quanto viene percepita attraverso il senso della vista, o si riflette – come realmente è, o variamente alterata – in uno specchio, nell’acqua, o rimane impressa in una lastra o pellicola o carta fotografica…”
Pertanto, le immagini esterne non hanno molta relazione con il nostro immaginario interno, le emozioni, il vissuto di un’esperienza reale oppure onirica, se le consideriamo nella loro realtà puramente sensoriale: un oggetto ha precise caratteristiche, una forma che la vista riconosce, lo possiamo associare con il tatto a una sostanza precisa, può avere un odore che il senso olfattivo percepisce, un profumo… Lo identifichiamo, quindi, nella sua specifica rappresentazione materiale.
Insomma, un qualsiasi oggetto non ha particolare significato, se non nella sua essenza esteriore che tutti noi, in modo neutro, riconosciamo all’unanimità: una matita è per tutti un oggetto utile alla scrittura o per creare un disegno, nulla di più.
Ma quando un oggetto diventa per noi “immagine interna” di un’emozione che smuove nell’animo sensazioni uniche e personali? Quando l’oggetto diventa parte integrante o rappresentazione di un’esperienza, ovvero si trasforma da forma esteriore a “memoria emozionale”.
Ad esempio, se vedo un piatto di tagliatelle al ragù, all’istante avverto dentro di me il profumo della casa di mia nonna e rivedo me bambina inginocchiata su una sedia in cucina, ad ammirare come le sue ossute mani trasformavano la pasta in un piatto meraviglioso.
Sono immagini che mi resteranno impresse nella mente fino alla morte, esperienze che non tornano, ma rivivono nella memoria e sono parte di me, della donna che sono oggi, alla continua ricerca di quell’ingrediente speciale, la parola giusta, tale da rendere la mia scrittura un “piatto appetitoso” per chi legge.
Così, l’oggetto, “piatto di tagliatelle con il ragù”, diventa per me parte di una crescita personale, vissuta nel tempo passato e simbolismo della mia visione esistenziale oggi.
E, infatti, sempre ricorrendo al vocabolario e all’Enciclopedia Italiana della Treccani, un oggetto diventa un’immagine interna che arriva dal profondo della nostra mente:
“… rappresentazione alla mente di cosa vera o immaginaria per opera della memoria o della fantasia.”
In pratica, ogni oggetto ha in sé due valenze: è un’immagine che arriva alla nostra coscienza attraverso i sensi, ma può ricondurre a qualcosa di diverso, caricarsi di significati particolari che arrivano da un’esperienza o un’emozione vissuta in un preciso momento della nostra vita.
L’oggetto perde così la propria forma esterna, per acquisire la forma simbolica di “segno” che rimanda alla nostra storia autobiografica, diventandone, per tal motivo, esso stesso personaggio vitale.
FOTOGRAFIA E NARRAZIONE DI SÉ
La fotografia è un’altra forma espressiva e artistica con cui raccontiamo una storia attraverso un fermo-immagine e ne ho già trattato in un mio articolo l’anno scorso (Se vuoi leggerlo clicca qui).
Ma andiamo oltre e proviamo insieme a considerare il simbolismo che si nasconde dietro uno scatto e per questo ho chiesto aiuto a un mio carissimo amico e narratore di storie come me, Enzo Zevini, un appassionato di fotografia.

Vi consiglio di seguirlo su Instagram nei sui “Fogli Inediti – Street Fotography” ( se vuoi seguire clicca qui), un viaggio tra le strade metropolitane, in cui le immagini di uomini, donne, animali e oggetti in bianco e nero si stravolgono nella loro essenza cruda in un gioco riflettente di sovrapposizioni e trasparenze.
Ho chiesto ad Enzo: “Perché la scelta del bianco e nero e perché spesso le tue foto sono il risultato di riflessi sovrapposti in cui oggetti e persone sembrano fondersi in un’unica identità corporea?”
La sua risposta l’ho trovata semplice e disarmante allo stesso tempo, nella sua profondità segreta, una visione che mi inquieta l’anima, quando si inizia a “sbobinare” pagine inedite della propria storia attraverso l’attimo fuggente di uno scatto:
“Il bianco e nero nelle fotografie è una scelta ben precisa, in primis perché il colore mi dà una sorta di disturbo, ma soprattutto ritengo che si così si vada all’essenza dell’immagine e di cosa vogliamo esprimere, nel gioco dei chiaroscuri, tra ombra e luce e le mille sfumature dei grigi.
C’è un fotografo che ha descritto molto bene questa cosa, si chiama Allan Grant il quale affermava che riprendendo i colori nell’immagine è come se fotografassi i vestiti di una persona, mentre in bianco e nero fotografi l’anima. Mi ha sempre molto colpito questo pensiero. Significa far emergere da chi siamo sia la luce che l’ombra della nostra verità, le contraddizioni e i conflitti che si intrecciano alla bellezza del nostro talento.
Infine, più che creare le sovrapposizioni delle immagini, io fotografo le superfici riflettenti (vetrine, specchi…) che diano un’idea di cosa potrebbe essere la realtà vista secondo prospettive diverse che giocano tra loro: questo perché, secondo me, la realtà è solo una questione puramente soggettiva e, di conseguenza, ognuno vede in base all’idea che uno ha della vita, le proprie credenze e il carico di esperienze, emozioni e pensieri che uno si porta addosso dalla nascita.
E poi nelle superfici riflettenti esiste un contrasto di luce e di ombre pazzesco e per me un essere umano vive secondo la visione di questi due estremi entro cui cerco l’equilibrio”.
Enzo è una di quelle persone con cui vivo una sorta di “allineamento di anima” e quando riflettiamo di scrittura, noi narratori di storie, entriamo in un universo carico di simbolismi da cui non è facile uscirne, se ne resta avvinti per ore e giorni, nelle trame di questo viaggio esistenziale.

A tal proposito, mi viene da pensare a una fotografa che venne riconosciuta nella sua grandezza postuma, quando ormai di lei se ne erano perse le tracce, parlo di Vivian Maier: c’è un aspetto della sua storia che mi lega a lei, anche io, prima di essere oggi una ghostwriter, ho vissuto per anni, con pochi mezzi, esercitando il mestiere di “tata”. E anche io, come lei, avvertivo in me la spinta spasmodica di raccontare la vita dentro e fuori di me, in ogni modo possibile, attraverso racconti, fotografie, una giostra di parole sparse e immagini raggomitolate in una grande stanza di 38 mq in cui era rinchiusa tutta la mia voglia essere ancora viva.

Con una sensibilità tutta al femminile, Vivian è da considerarsi una grande attraverso la sincerità e la trasparenza del suo “occhio”, capace di scorgere ai lati delle strade metropolitane universi paralleli, scorci di vita ai margini della società che appartengono alle verità segrete del “non detto”.
E un po’ questo mi rappresenta, perché raccontare storie di gente comune, che nessuno conosce, ma che hanno attraversato il dolore, il dramma della vita nelle sue sfaccettature più scabrose, significa offrire a ogni storia un valore simbolico universale, come se fosse una fotografia in bianco e nero, vivida e palpitante tra ombre e luce di una rinascita che nessuno osa vedere.
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