
2. SI PUÒ CANTARE ANCHE A BOCCA CHIUSA
Lo stupro è il frutto privilegiato di un paradigma da cui non possiamo più sfuggire perché ne siamo figli, siamo cioè tutti inseriti in un meccanismo preciso di potere: il patriarcato.
Anni di lotta femminista per l’emancipazione non ci hanno purtroppo immunizzati da una storia che ci portiamo addosso e l’unico modo per liberare la società da questa cultura conservatrice, che mette in continua contrapposizione uomo e donna, è iniziare un cambiamento individuale del nostro linguaggio comunicativo.
Solo su noi stessi possiamo agire per poi trasmettere, in risonanza nell’ambiente, una visione più sana ed equilibrata della relazione tra i generi, come le vibrazioni di un’onda sonora, attraverso le nostre parole e il nostro comportamento.
Insomma, non è più possibile tacere o restare insensibili dinanzi a fatti che ci scaraventano ancora oggi indietro di secoli, quando era il mito stesso portatore di un modello imperante di femminilità e mascolinità da cui discostarsene significa diventare oggetto di giudizio, tanto che persino la vittima di stupro deve corrispondere ad aspettative ben precise se non vuole risultare poco credibile e colpevole essa stessa del reato subito.
Pensiamo al mito di Cassandra, ad esempio, sorella di Ettore e Paride, amata dal dio Apollo che le fece il dono della profezia, ma dopo essere stato respinto la condannò a non essere mai creduta: da questo mito è scaturita la “sindrome di Cassandra” che tuttora si manifesta nel giudizio collettivo e si attiva ogni volta una donna mette in discussione un uomo, soprattutto se è un uomo di potere, un dirigente o un superiore o peggio, il compagno di vita, nel tentativo di difendere i propri diritti e la propria integrità personale.
In pratica, diventa lei colpevole di non essere la vittima che la società vuole, diventa una manipolatrice, considerata troppo emancipata nei costumi, si confonde sotto l’abuso di alcool o droghe e da questi presupposti non risulta credibile, perché non si è sottomessa al dominio del maschio, come Cassandra che non si è sottomessa alla volontà del dio Apollo.
Pertanto, la vittima di stupro deve corrispondere al modello di donna che la cultura patriarcale ha sempre imposto e continua a imporre, anche se da canali divulgativi diversi dal mito e il meccanismo non è complicato da capire: si gioca tutto sulla differenza biologica che giustifica, secondo tale logica culturale, la differenza sostanziale di ruoli tra uomo e donna, nonostante l’emancipazione sociale e i traguardi che abbiamo raggiunto negli ultimi decenni, dal secolo precedente.
Qualcosa non ha funzionato, se ancora le donne muoiono o continuano ad aver paura, nascondendo sotto un’apparente consapevolezza, i lividi della loro fragilità, non per il genere di appartenenza, ma per essere, sempre e comunque, vittime della cultura dello stupro.
Ma usciamo per un attimo fuori dalla logica del reato, cominciamo a dare senso e significato alla parola stupro come atto violento che si perpetua anche e soprattutto in una prevaricazione psicologica e sociale, sotto una patina perbenista che tende a banalizzare chi umilia la donna tramite atteggiamenti e parole abusanti ovunque, in famiglia, sul posto di lavoro, per strada.
E voglio per prima io cambiare la prospettiva della narrazione perché mi sono resa conto che ogni scelta collettiva di cambiamento nasce da una precisa scelta individuale.
Sono andata al cinema per vedere il film “C’è ancora un domani”, di Paola Cortellesi, attratta forse dalla risonanza generale che l’opera ha suscitato, ma non è così perché, per altri film che ho amato, non ho sentito l’urgenza, come ora, di ammirarne l’arte, aspettando che uscissero sui canali televisivi per godermelo tranquillamente a casa.
In verità, ho risposto a un richiamo istintivo di pancia, dovuto a un mio malessere esistenziale del momento, forse perché quando sei già oltre quella soglia di trasformazione vuoi vederci chiaro in te stessa, quale donna mi trovo di fronte oggi allo specchio, cosa sto costruendo nella mia vita, per me, per gli altri e fino a che punto io sia in grado di realizzare qualcosa di significativo perché altre donne possano sentirsi libere come me dentro, libere dai loro demoni, da quelle ferite antiche che ancora fanno male.
Non basta essere emancipate per essere libere e Michela Murgia ha tentato di spiegarcelo nell’ultimo tempo della sua vita, abbiamo bisogno più che mai di un femminismo di scelta e il film della Cortellesi lo ha trasferito sullo schermo attraverso una narrazione avulsa dal solito linguaggio saggistico di pensatori, scrittori, filosofi, sociologi e quant’altri desiderano offrirci un‘interpretazione logica della società a cui apparteniamo.
Grazie Paola Cortellesi, perché hai avuto quel guizzo pazzesco di strapparci quel sorriso amaro dinanzi alla verità delle nostre radici e io stessa, entrando in stretto contatto con Delia, la protagonista, non ho potuto non accorgermi che io quella donna la conoscevo già, me la porto nel sangue.
Ho ripensato a mia nonna, ai silenzi vitrei dei suoi occhi, nonostante la voce mi raccontasse della guerra, di quanto coraggio c’è voluto per portare a casa un po’ di farina e due uova, attraversando le campagne infestate da soldati in cerca di vendetta o sotto gli echi dei bombardamenti, un racconto affascinante per una bambina curiosa come io ero, ma non immaginavo la forza segreta di una resistenza interiore che lottava contro ben altri mostri.
Non voglio svelare nulla del film e non ho intenzione che questo mio articolo diventi una recensione cinematografica, il senso trascende il valore dell’arte e se qualche detrattore inneggia a ben altri capolavori del nostro lontano Neorealismo posso anche dire che è vero, il film della Cortellesi è distante dall’essere un capolavoro. E forse lo scopo della regista non era di sicuro quello di considerarsi alla pari dei grandi del nostro passato, ma ha desiderato comunque omaggiarli, per regalarci una storia che è impossibile non attualizzarla, nonostante ambientata nel secondo dopoguerra.
Quello che, invece, desidero sottolineare è il linguaggio comunicativo che la sceneggiatura ci dimostra come essere linguaggio tipico della cultura dello stupro.
Vediamone qualcuno, per capire insieme.
“Il suo problema è che risponde”. Delia è donna del popolino, non ha diritto di rispondere davanti il potere del capofamiglia, come mia nonna che aveva solo la terza elementare, per lei era già un privilegio saper leggere e scrivere: le donne di quel tempo non avevano diritto di contraddittorio all’interno della dinamica di coppia e, in quanto femmina, non aveva il diritto di studiare, non serviva.
“Taci tu donna, non immischiarti in queste cose che non ti riguardano”, ma non era una donna del popolino a ricevere tale monito imperativo, bensì una donna istruita e di famiglia benestante a cui era stato concesso di studiare seppur femmina e, nonostante questo, il suo ruolo per la società di allora era e rimaneva soltanto uno, dedicarsi alla famiglia e alla cura dei figli e della casa.
Le cose sono cambiate, certo, abbiamo raggiunto traguardi impensabili allora, oggi una donna è emancipata e può accedere a studi superiori, università e master, posti di potere, ma nel continuo dissidio interiore tra ruolo femminile di “caregiver”, unica dispensatrice di cura e la carriera, mai libera dentro di sé da quei sensi di colpa ereditati dalle nostre nonne.
Tra i due personaggi femminili, la differenza sostanziale erano le botte, nascoste dietro una finestra chiusa, come se le urla di dolore potessero in qualche modo essere rese meno assordanti, ma la violenza di anima espressa nel linguaggio abusante, resta identica per tutte, anche se vivevi nell’agio e mancavano i segni corporei dei lividi.
E oggi? Esiste ancora un linguaggio abusante e ben più subdolo, perché si nasconde dietro una parvenza di libertà di espressione e di relazione che prima non esisteva, ma proprio per questo più pericolosa ed efficace nel ferire la vittima che, spesso, non è nemmeno consapevole di esserlo.
Inoltre, consideriamo, nel film, come è narrata la relazione tra madre e figlia.
La figlia sembra essere più determinata a non replicare lo schema violento, quasi è essa stessa accusatrice verso le donne, come sua madre, che non reagiscono dinanzi gli abusi.
“Perché non te ne vai via?” – e la risposta non è che una: “Ma dove vado?”.
Mia nonna e tutte le donne del suo tempo dove sarebbero mai potute andare, senza istruzione e senza una legge che la tutelasse? Potevano solo restare e proteggere.
Ma la figlia nemmeno si rende conto che l’amore giovane e puro del ragazzo che ha davanti a sé è intriso nell’anima della stessa silente minaccia: “Tu sei mia!”.
L’amore nasconde agli occhi della giovane la verità, ma la madre osserva, tace e agisce nell’unico modo che le sarà consentito e che va interpretato dietro il disvelamento della trama.
E si disvela, se si ha la sensibilità di farlo, attraverso sempre il linguaggio comunicativo del corpo: la bocca chiusa che ferma la mano del carnefice perché in quel tacere c’è la forza di urlare la propria dignità di donne libere, seppur materialmente schiave di una cultura imperante.
È un omaggio, quindi a quelle donne dimenticate e di cui nessuno ha mai raccontato il coraggio di restare, più tormentato del coraggio di combattere ad armi pari una guerra partigiana per la libertà di tutti noi.
E quelle bocche chiuse di donne invisibili diventano un coro di donne che hanno scelto, oltre ogni opposizione, hanno scelto per noi, donne contemporanee, che non sempre onoriamo il privilegio della libertà sociale e personale ereditata per diritto di nascita.
Ecco il vero finale che appartiene tutte noi e molte donne dei paesi islamici ce lo dimostrano inneggiando di esistere, dietro quell’oscurantismo nero di corpi cancellati, attraverso sacrificio della loro stessa vita:
“Si può cantare anche a bocca chiusa!”

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