
Storie di donne dietro una diagnosi
“La prima volta ti ho incontrato nella vasca da bagno e adesso che non ci sei più guardo avanti.
La mia vita come è stata e come sarà.
Non ho perso niente, né il tempo, né le persone a cui tengo: siamo rimasti qui tutti uniti, ci siamo tutti, tranne te”.
Sono le parole recitate dell’attrice Rosanna Banfi prima di iniziare, accompagnata dalle note della canzone “I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero, la sua danza contemporanea con il ballerino professionista Simone Casula che interpreta nella coreografia il marito Fabio.
È la storia della sua vita dal giorno della scoperta del cancro fino ad oggi, una drammatizzazione scenica in cui lei stessa riattraversa quei momenti per poi lasciarli andare. Per guardare avanti e rinascere.
C’è una vasca da bagno al centro della scena, avvolta da erbacce infestanti e serpenti, il ballerino solleva Rosanna, con il capo coperto da un foulard per nascondere gli effetti devastanti di una chemioterapia.
Inizia una danza struggente, c’è fatica a camminare lungo giorni che sembrano non finire mai dopo una sentenza mortale inflitta da un nucleo di cellule impazzite.
La rabbia prende il sopravvento, pugni nello stomaco a lui, il compagno di vita che l’ha sollevata e trascinata fuori da quella vasca da bagno perché non si arrendesse al male.
E insieme hanno lottato, pianto, sperato.
Rosanna è tagliata nel profondo nella carne, in quella parte del suo essere donna che le appartiene, che ha nutrito i suoi figli e che nell’amore è stata accarezzata.
Il corpo racconta in due minuti il percorso di anni, è una danza che passo dopo passo si alleggerisce, le braccia ad un certo punto si aprono in un abbraccio corale come se volesse accogliere tutte le persone che sono parte di lei.
È il grazie alla vita che in questa esperienza di malattia le ha insegnato una nuova visione di se stessa, una migliore profondità di valori coltivati in anni duri e disperati.
Rosanna è davvero una donna rinnovata, quella vasca oggi è fiorita di colori e profumi nuovi e la danza non può che chiudersi con un atto d’amore e di libertà strappando via quel foulard dal capo perché non ha più motivo di nascondersi e di avere paura.
Questa storia, narrata durante un noto programma televisivo, mi ha riportato indietro negli anni, quando ho lavorato come infermiera nel Day Hospital di Oncologia dell’Ospedale San Giuseppe a Milano.
Le storie di donne in lotta contro il tumore al seno le respiravo ogni giorno: alcune donne vincevano, a volte il male tornava inesorabile, alcune purtroppo dovevano arrendersi a un destino infausto.
È certo una narrazione visiva potente quella di Rosanna Banfi, l’immagine espressiva della danza rivive i passaggi di una lotta, la stigmatizzano nell’unione dei corpi che nell’amore cercano una via di speranza, ma ancora più incisiva è quando si affida un percorso di malattia alla scrittura perché significa scavare in noi la ricerca di quelle parole salvifiche che nella storia vogliono riconciliarti con la vita.

Non è da molto che si parla di medicina narrativa che interviene in un processo terapeutico e gli infermieri rivestono un ruolo fondamentale perché sono a contatto stretto con il paziente in un rapporto fatto di intimità e quotidianità.
Rita Charon, un medico internista della Columbia University l’ha definita “la medicina praticata con competenze narrative, per riconoscere, assorbire, interpretare ed essere commossi dalle storie di malattie”.
I tumori al seno, in modo particolare, investono la donna di un carico che oltrepassa la paura della morte, perché viene percepita come una morte prematura della propria identità corporea e di anima, come se il corpo riflesso allo specchio non riportasse indietro la consapevolezza di sé, ma solo una massa informe che non merita più di essere toccata, accarezzata, apprezzata nella bellezza femminile.
E sono storie che come infermiera ti travolgono più di altre, ti si appiccicano addosso e ti costringono ad un lavoro riflessivo: insieme alla paziente si fa ordine, si rivalutano azioni e sentimenti, ci si rimette in discussione nei propri valori fondamentali di donna professionista, di compagna e di madre dinanzi alla malattia e alla morte.
In definitiva la malattia del cancro al seno va reinterpretata alla luce della storia di vita della paziente e quanto un intervento radicale, chemioterapia e radioterapia possano interferire con i sentimenti, la sessualità, la vita di coppia, la propria identità sociale, la propria femminilità.
E da qui la medicina narrativa potrebbe aiutare a ripensare un piano terapeutico che riconcili anamnesi, diagnosi e prognosi con il percorso di cura che la paziente dovrà affrontare dentro di sé nel quotidiano.
Insomma, la donna va sostenuta perché la sua vita oltrepassi il tunnel in cui la scaraventata un esame istologico, fatto di interventi mammari più o meno devastanti, terapie proposte da cicli interminabili, e le si possa restituire, attraverso la narrazione, una nuova storia futura da poter riscrivere, una storia di amante, madre, donna in carriera, viaggiatrice, artista… alla riscoperta di sé stessa e del proprio ruolo nel mondo.
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