
Quando una di noi muore per mano violenta di chi dovrebbe amarla, il dolore fa rumore, ma quel rumore sordo, che lo puoi localizzare nella pancia e che ti apre in due il cuore, il cervello.
È il dolore di una morte insensata e siamo stanche noi donne tutte di dover giustificare il nostro valore al mondo, perché l’essere persone indipendenti è un diritto, non una concessione.
Siamo forse attori di una guerra senza logica e attenuanti, nel 2025 non si riesce a trovare una soluzione alla cultura aberrante dello stupro, di cui il femminicidio e il punto di arrivo di un’escalation di violenza che non ha più storia, ma solo si contano i numeri delle vittime. E in numeri non possono mentire, non possono essere fraintesi o interpretati.
Il femminicidio è diverso dall’omicidio, fissiamolo nella mente una volta per tutte ed è stato oggi riconosciuto persino dal legislatore, tanto da essere considerato un’aggravante l’omicidio di una donna maturato in un contesto domestico.
E ricordiamolo, per chi ancora si intestardisce nell’affermare che anche gli uomini vengono uccisi, senza soffermarsi a considerare cosa si intende con la parola femminicidio e perché è stato necessario crearla per non generare più confusioni: il termine identifica l’uccisione di una persona a causa del suo genere sessuale ed è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno radicato in una cultura patriarcale e misogina di cui la nostra società fatica a liberarsi.
Ricominciamo dall’inizio, dal capire cosa si intende quando parliamo di violenza di genere perché il femminicidio si matura in un contesto culturale di cui noi tutti siamo artefici e responsabili.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1993 dichiarò quanto segue, in merito all’eliminazione della violenza sulle donne:
“Ogni atto di violenza fondato sul genere che abbi come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.
Perché, a livello globale, si è ritenuto necessario sottolineare una definizione precisa di coercizione dell’uomo sulla donna?
La cultura patriarcale non necessariamente implica un atto violento nei confronti della donna, piuttosto è un terreno su cui è maturata la convinzione che esista una superiorità naturale dell’uomo rispetto alla donna: tutto ciò ha inciso nel determinare una differenza anche di ordine sociale, tanto che l’essere donna diventa una discriminante in ambito professionale e culturale.
Da qui nascono comportamenti devianti, molestie sul posto di lavoro, comportamenti mortificanti in ambito familiare, stupri, violenze fisiche e violenze psicologiche più subdole che provocano paura, disistima verso sé stesse, disagio sociale e qualsiasi violazione dei suoi diritti in quanto persona.

A riguardo possiamo sottolineare un’ulteriore distinzione tra violenza di genere e violenza domestica: con la prima si specifica una violenza generata da differenze sociali tra uomini e donne, mentre la seconda è vissuta più in ambito privato e si matura con atti quotidiani di sopraffazione e minaccia.
Insomma, tutte le donne possono essere vittime, maltrattate dal proprio partener in casa o subire molestie, stupri, in qualsiasi situazione esse si trovino, che sia per strada o in un locale o a lavoro: la causa non dipende dalla donna, dal suo comportamento e meno che mai da “provocazioni”, come vestire una minigonna o essere disinibita, ma dall’aggressore e dalla convinzione fuorviata che, essendo egli superiore rispetto alla donna, è giustificato dal trattarla come fosse un oggetto o una sua proprietà, senza che abbia il diritto di decidere di se stessa.
E la cultura aberrante dello stupro imperversa soprattutto dall’uso deviato delle parole, se poniamo attenzione come sono utilizzate nelle testate giornalistiche e sui social network da tutti noi, troppo spesso senza alcuna consapevolezza perché sono parte di luoghi comuni che abbiamo acquisito negli anni.
Quasi sempre sui giornali la narrazione è focalizzata sulla vittima e non sull’aggressore, se ne stigmatizzano i comportamenti sociali e morali: è il cosiddetto “victim blaming”, ovvero ritenere la vittima responsabile della violenza subita, sia in modo diretto, sottolineando ad esempio se vestita con abiti “provocanti”, sia in modo indiretto, andando a indagare in modo morboso sullo stile di vita della donna e i suoi comportamenti.
Inoltre, quasi sempre la donna diventa un oggetto passivo del racconto, come a voler sottolineare lo stato di totale dipendenza dall’uomo, a ciò si aggiunga l’uso di parole che si allontanano dal concetto di violenza di genere: “raptus”, gelosia” sono termini che inducono a pensare a una perdita momentanea di controllo, negando di fatto una realtà di dominio e continua prevaricazione, una escalation di violenza quotidiana, fino all’atto finale del femminicidio.
Ed è evidente il contrasto di forma nell’uso delle parole “raptus” e “gelosia” spesso usate nei tribunali: la gelosia la si intende, dal comune pensare, come fosse una forma di “amore”, quale stereotipo ancora molto radicato nella nostra cultura.
Ma nelle situazioni di violenza, dove l’aggressione è quasi sempre premeditata, non possiamo parlare certo di amore e nemmeno di gesto incontrollato di follia, quanto piuttosto di un esercizio del controllo sulla donna che perde, nella relazione abusante, il diritto a una propria individualità.
CONCLUSIONI
Per concludere, La lotta alla violenza di genere è stata, di fatto, combattuta in politica da donne parlamentari illuminate che hanno sovvertito una legislatura passata misogina e lesiva dei diritti della donna in quanto persona, ma non basta.
Le leggi ci sono, ma le donne hanno paura a denunciare perché non si sentono tutelate né dalle istituzioni, né tanto meno dalla società.
È fondamentale un cambio di rotta a livello culturale e di pensiero, spogliando di retorica fuorviante la comunicazione e il linguaggio che tutti noi sui social network, non solo la stampa e gli operatori giudiziari, trasmettiamo, quando si tratta di violenza di genere.
Bisogna che il pregiudizio vada combattuto e tutto ciò che tende a deresponsabilizzare o ad attenuare la responsabilità degli uomini macchiati di reati di violenza fisica, psicologica e di stupro.
Nonostante le conquiste per una reale emancipazione femminile in ogni area della vita, se non cambia il pensiero patriarcale dominante, ci sarà sempre un’asimmetria di forza tra uomo e donna, una discriminazione sociale profonda che rende, di conseguenza, diversi i destini delle due facce della stessa mela.

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