
Confesso, sono colpevole, ho ucciso il principe azzurro.
Avete capito che sto alludendo al discorso di Paola Cortellesi all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università Luiss, ma non sto qui a difendere ciò che non ha bisogno di essere difeso.
E non voglio provocare nessuna polemica, piuttosto desidero con molta semplicità e chiarezza riflettere insieme a voi, per liberarci dalla schiavitù dei social network, quando questi diventano armi di “distruzione di massa”, riferendomi, nel caso specifico, alla distruzione di ogni capacità di pensiero, di critica e autocritica.
Pensare con la propria testa vuol dire analizzare il contesto di una notizia, capire il senso reale di una frase estrapolata da un discorso e l’unico modo per farlo è ascoltare fino in fondo quale storia quella persona ci sta davvero raccontando.
Se voi, ad esempio, leggeste alcuni passi del mio romanzo, “Che mi sono persa?” … verrei fucilata sulla pubblica piazza, secondo i commenti che girano da tempo sui social network, ma se entrate nel contesto della storia che io ho desiderato raccontare allora, forse, la prospettiva cambia. (per chi desidera leggere il mio romanzo lo trova disponibile qui).
Ammettiamolo, a tutti noi da piccoli le favole ci hanno fatto sognare e guai se mi toccate il film di Cenerentola della Walt Disney, il mio preferito dalla tenera età dei sei anni. Quando poi sono diventata mamma, mi sono divertita e appassionata a rivedere il film con le mie figlie e ancora oggi piango come una cretina alla scena dei topolini che imbastiscono il vestito per il ballo a Cenerentola, cantando e danzando in allegria.

Il problema non è la favola, ma quando la favola diventa un modello e parte di un condizionamento culturale con cui, io e molte donne della mia generazione, siamo cresciute e vi svelo un segreto: che vi piaccia o no, le favole sono sessiste e ci raccontano una donna che nessuno più desidera essere, ma va bene e nessuno chiede che vengano modificate, perché sono state create in un preciso contesto storico in cui si respirava un certo tipo di cultura patriarcale e non poteva che essere così.
A noi piacciono le favole, piacciono anche alla Cortellesi, ne sono sicura, semplicemente è importante mantenere un senso critico su cosa stiamo leggendo e di raccontarle per quelle che sono, favole, ben lontane dalla vita reale e da ciò che le nostre figlie desiderano essere.

La storia di Carlotta, protagonista del mio romanzo, è la storia di una donna che prende coscienza del valore profondo del suo talento e della bellezza che le respira dentro. Alla fine, si libera dai condizionamenti che le hanno imposto culturalmente e che la volevano realizzata solo come sposa e madre, accanto al suo “principe azzurro” a lungo atteso.
Infatti, Carlotta da bambina lo sognava il principe azzurro, lo immaginava bello e romantico, protettivo e affascinate, ed era convinta che un giorno lo avrebbe incontrato come nella favola di Cenerentola, per vivere felici nel castello fatato dell’amore vero.
Ma una volta cresciuta la favola continua a risuonarle dentro come un mantra ossessivo, si ritrova così a essere l’eterna Cenerentola che aspetta la magia:
“Ma come, ancora non hai il fidanzato? Non hai baciato un ragazzo alla tua età?”
“Attenta a non fartelo scappare o rimani zitella!”
Finché, un giorno, Carlotta scoprirà che dovrà salvarsi da sola dal “drago” e che non è vero che rimarrà per sempre prigioniera nella torre dei pregiudizi, ma che può farcela da sola a essere felice, amando la donna che è nel profondo e decidendo con coraggio di scegliere sé stessa.
In definitiva, uccidere metaforicamente il principe azzurro significa scoprire che l’amore coniugale è un valore aggiunto all’amore più importante, amare per le donne che siamo, realizzate secondo il talento che vive dentro di noi, da coltivare come il bene più prezioso, nella massima libertà e non secondo cosa gli altri si aspettano da noi.
A questo punto, non ho intenzione di spiegarvi cosa in realtà ha voluto trasmetterci Paola Cortellesi nel suo intervento alla Luiss, ma desidero fare l’unica cosa che amo, ovvero mettere a disposizione la mia voce. Questa volta non da ghostwriter, quale interprete della voce narrante di tante vite che le persone mi affidano, ma, da semplice lettrice.
Così, attraverso la mia voce fisica, vi ripropongo il discorso integrale di Paola Cortellesi perché sia lei stessa a raccontarvi la sua storia.
Vi invito a chiudere gli occhi e a immaginare di essere uno di quei ragazzi che l’hanno ascoltata in quella sala, vi invito, come loro, ad ascoltare la storia che Paola vi racconterà attraverso la mia voce e, forse, capirete come la maggior parte di chi l’ha criticata si è lasciata trascinare in un pregiudizio solo per quelle poche frasi, estrapolate dal contesto di un discorso che aveva ben altro valore.
In conclusione, è dai pregiudizi che nasce spesso la violenza verbale e la mancanza di libero pensiero critico: una frase non fa la storia e non racconta chi è la persona, come una goccia non racconta il mare, anche se ne è parte integrante.
Buon ascolto!

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