IL SENSO DELLE PAROLE NELLA CULTURA DELLO STUPRO

3. “UNA DONNA HA DIRITTO DI ESSERE CIÒ CHE VUOLE”

“Una donna ha diritto di essere ciò che vuole” sono le parole di Tina Lagostena Bassi, che, dal patrocinio a Donatella Colasanti, sopravvissuta alla strage del Circeo nel 1975, divenne per tutte “l’Avvocata delle donne”: fu colei che per prima pronunciò la parola “stupro” in un’aula di tribunale e che diede voce autorevole alle vittime di violenza, contro un sistema maschilista e lesivo che le considerava imputate e carnefici di sé stesse.
Ma dovremo aspettare fino al 1996, ben vent’anni dopo il Massacro del Circeo, perché venga approvata la “legge contro la violenza sessuale”: d’ora in poi lo stupro sarà considerato reato contro la persona e non più contro la morale pubblica, questo grazie alla mobilitazione di tutte le rappresentanze parlamentari femminili di ogni credo politico.

È uno stralcio di un articolo che scrissi due anni fa, parte di una quadrilogia di articoli che presero spunto dalla Strage del Circeo per ragionare sulla condizione della donna, dai tempi delle lotte femministe per il raggiungimento delle pari opportunità in campo sociale, lavorativo, nel diritto familiare e giudiziario (se vuoi leggere l’articolo citato clicca qui)

Tante cose sono cambiate da allora, eppure, nonostante oggi ci sia una legislazione, seppur non perfetta, che tutela le donne all’interno degli apparati giudiziari e istituzionali, esiste ancora un linguaggio lesivo della dignità femminile, ostacolandone di fatto la parità di trattamento dinanzi la legge.

Possiamo affermare, con tutta certezza, che la donna oggi ha “diritto di essere ciò che vuole”?

Nessun tribunale potrebbe vietare a qualsiasi persona la libertà di espressione identitaria, che sia nel vestirsi, nelle scelte di vita quotidiana, come uscire la sera, o anche nell’intraprendere carriere professionali, secondo le proprie inclinazioni e preferenze.

Eppure, qualcosa non va e in questo articolo desidero soffermarmi in particolare sull’uso delle parole abusanti in determinati contesti, quando la donna deve affrontare le conseguenze di una denuncia per abuso sessuale o stupro.

Entriamo insieme nel cuore del problema che con questa quadrilogia di articoli dedicati all’uso delle parole nella cultura dello stupro desidero portare avanti, nell’intento di trovare una strada comune per poter cambiare la tendenza, a iniziare dal linguaggio comunicativo, soprattutto in quei luoghi dove dovrebbe esserci una maggiore tutela nei confronti di chi subisce violenze di genere.

IL SESSISMO NEI TRIBUNALI: LA CULTURA DEL CONSENSO IN OPPOSIZIONE ALLA CULTURA DELLO STUPRO

La frase iniziale Tina Lagostena Bassi La pronunciò durante il famoso processo per stupro celebrato nel 1979 e trasmesso per la prima volta in RAI. Fu uno dei casi più eclatanti, dopo il processo del Circeo, in cui si perpetrò un vero e proprio linciaggio nei confronti della vittima: si desiderò stigmatizzare da parte dell’avvocatessa come tale abuso di linguaggio nei tribunali avrebbe scoraggiato le donne a denunciare il loro aggressori e, a tal proposito, si elevò al di sopra del semplice ruolo di difensore della donna Fiorella, ergendosi invece a pubblico accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza.

Ma oggi non ci discostiamo di molto dalla realtà passata, se pensiamo che la Corte Europea ha condannato l’Italia a risarcire il danno subito da una giovane donna, a causa delle parole utilizzate in Corte d’Appello di Firenze per motivare una sentenza in cui i sette imputati di uno stupro di gruppo sono stati assolti dall’accusa.

Dalle direttive stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), sono scaturite le seguenti domande:

  • Per giustificare l’assoluzione degli imputati, i cui diritti è giusto comunque tutelare in un equo processo, era necessario stigmatizzare i riferimenti alla vita privata della vittima, delle sue relazioni sentimentali, fino a rimarcare i suoi orientamenti sessuali?
  • Era necessario sottolineare il colore rosso delle mutandine e descrivere nei particolari i suoi comportamenti durante la serata dove si sarebbe consumato lo stupro di gruppo?
  • Non sarebbe stato sufficiente affermare che la vittima era sana di mente e non in stato di inferiorità per abuso di alcool, senza indagare in modo ossessivo sullo stile di vita della ragazza?

In pratica, si è dedotto che la Corte d’Appello di Firenze abbia messo in essere violazioni lesive della personalità della vittima, determinando quello che si chiama “vittimizzazione secondaria, riflessa rispetto a quella “primaria” dell’atto in sé di stupro.

Non è decisione leggera per la donna decidere di denunciare uno stupro, durante il procedimento penale è una sofferenza profonda dover ripercorrere l’esperienza traumatica con estranei, dover entrare nei più crudi particolari e non sempre nei luoghi di indagine si sottopone la vittima all’interrogatorio affiancandole un sostegno psicologico di una persona professionista, possibilmente una donna, che possa farla sentire protetta e ascoltata, stabilendo con lei un contatto empatico. Pensiamo anche che si è costrette a sottoporsi a visita ginecologica per poter isolare eventuali tracce biologiche dello stupratore o analizzare e fotografare le parti intime per evidenziarne i segni fisici della violenza.

In definitiva, il corpo e la mente vengono “scannerizzate” e la persona abusata perde ogni contatto con sé stessa, come fosse un pezzo di carne senza anima.

Si prova vergogna, annichilimento, senso di colpa, paura… sono emozioni devastanti che rimangono per sempre scolpite nella donna stuprata, è come sentirsi violentate una seconda volta…

… E poi una terza, quando si arriva in aula per il dibattimento, dove gli avvocati difensori, nello svolgimento delle loro prerogative, scavano nella vita della vittima per cogliere ogni minimo frammento che possa indebolire l’atto accusatorio o che possa instillare il dubbio che non ci sia stato consenso all’atto sessuale.

La cosa che mi preme sottolineare, nella condanna della Corte Europea nei confronti dell’Italia è che non si è inteso denunciare il sessismo nella sentenza di assoluzione della Corte di Appello di Firenze, non sono entrati nel merito di tale decisione perché ci potrebbero essere motivazioni giuridiche legittime tali da dover decidere di assolvere degli imputati.

No, il sessismo è stato individuato e condannato nell’uso di parole abusanti con cui giudici e avvocati hanno stigmatizzato la vittima. Questo ci deve far riflettere su come tale comportamento rientri in una dimensione culturale di radice patriarcale per cui si tende a minimizzare il reato di stupro.

Sembra esserci un’inversione di responsabilità, per cui è la donna che, con i suoi comportamenti “disinibiti” istiga l’uomo alla violenza, come se in quelle manifestazioni di libertà si potesse riconoscere il consenso tacito all’atto sessuale.

Perché è comunque importante denunciare, anche se non è facile per la donna affrontare tutto questo iter fin troppo doloroso e disturbante?

È importante denunciare perché è l’unico modo per rendere l’opinione pubblica consapevole, in modo chiaro e palese, che vengono lesi i diritti umani di autodeterminazione di noi donne. Pertanto, denunciare ogni abuso significa urlare al mondo che siamo libere di poter realizzare e definire chi siamo, la nostra identità di persona in ogni ambito, anche nella scelta autonoma di come vivere la propria sessualità.

È una contro-narrazione con cui possiamo opporre alla cultura dello stupro la cultura del consenso, su cui è necessario lavorare per ribaltare una visione giuridica della violenza sessuale qui in Italia.

Infatti, le sentenze clamorose che negli ultimi tempi hanno indignato l’opinione pubblica, come quella del Gup (Giudice dell’Udienza Preliminare) di Firenze che il 23 marzo 2023 ha assolto due ragazzi accusati di stupro perché avrebbero commesso un “errore di percezione del consenso”, ci riportano a un modello giuridico non più accettabile, come anche la Convenzione di Istanbul1 in modo chiaro indica:

la mancanza del consenso è la base giuridica della definizione di violenza sessuale.

Indagare sul consenso significa, in poche parole, diramare tutta quella serie di pregiudizi sessisti che inquinano l’analisi dei fatti, tipici di una cultura dello stupro e che tendono a decolpevolizzare il carnefice, come esposto sopra. Certo è un percorso più complesso dare rilevanza al consenso della vittima, ma è l’unico modo per emanciparsi e offrire elementi utili alle indagini, senza ledere il diritto di nessun attore.

Insomma, dire che una ragazza non era in grado di dare un chiaro consenso perché ubriaca dovrebbe essere un’aggravante, non un escamotage per uscire impuniti perché non si è avuto il “chiaro sentore” se la vittima avesse detto sì oppure no! Essere ubriachi (e una donna, come l’uomo, può essere libera di divertirsi e ubriacarsi!) è di certo un ostacolo ad esercitare il libero consenso; quindi, la logica è inversa da come, invece, si evince dalle sentenze ultime del 2023.


CONCLUSIONE

 Introdurre nei tribunali e nei luoghi di giustizia lacultura del consenso” significa sovvertire alla base della società una visione patriarcale nelle relazioni tra i generi, in primis attraverso una sana educazione sessuale e affettiva da iniziare nelle scuole e, in secondo luogo, introdurre una rivoluzione generale contro i pregiudizi e gli stereotipi sessisti che si ripercuotono, di conseguenza, sulle sentenze in materia di violenza sulle donne.

  1. La convenzione di Istanbulentrata in vigore il 1º ottobre 2023 nella UE, è un quadro giuridico completo volto a proteggere le donne da ogni forma di violenza, al fine di prevenire, perseguire ed eliminare la violenza sulle donne e la violenza domestica, e di attuare politiche globali e coordinate. ↩︎

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