IL MASSACRO DEL CIRCEO

PER NON TACERE MAI

Quarta puntata

LA VIOLENZA DI GENERE, A CHE PUNTO SIAMO OGGI?

Sono trascorsi molti anni dal massacro del Circeo, abbiamo attraversato il confine del nuovo millennio e abbiamo raggiunto alti livelli di innovazione in molti settori della vita sociale, ma a che punto siamo oggi, nonostante le riforme legislative e le lotte femministe, per quanto riguarda la violenza di genere contro le donne?

La cronaca italiana di questi anni e le statistiche ci presentano un quadro per nulla confortante:

  • Sono 125 le donne uccise nel 2022, di cui il 95% maggiorenni e il 78% italiane. E con più precisione sono stati 103 gli omicidi avvenuti in ambito familiare e affettivo.
  • Quest’anno, solo da 1° gennaio al 5 marzo, già si contano 20 donne uccise, di cui 18 in ambito familiare e affettivo.

Ma il femminicidio, che è diverso dall’omicidio perché il termine identifica l’uccisione di una persona a causa del suo genere sessuale, è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno radicato in una cultura patriarcale e misogina da cui la nostra società fatica a liberarsi.

Ricominciamo dall’inizio, dal capire cosa si intende quando parliamo di violenza di genere.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1993 dichiarò quanto segue, in merito all’eliminazione della violenza sulle donne:

Ogni atto di violenza fondato sul genere che abbi come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

Perché, a livello globale, si è ritenuto necessario sottolineare una definizione precisa di coercizione dell’uomo sulla donna?

La cultura patriarcale non necessariamente implica un atto violento nei confronti della donna, piuttosto è un terreno su cui è maturata la convinzione che esista una superiorità naturale dell’uomo rispetto alla donna: tutto ciò ha inciso nel determinare una differenza anche di ordine sociale, tanto che l’essere donna diventa una discriminante in ambito professionale e culturale.

Da qui nascono comportamenti devianti, molestie sul posto di lavoro, comportamenti mortificanti in ambito familiare, stupri, violenze fisiche e violenze psicologiche più subdole che provocano paura, disistima verso sé stesse, disagio sociale e qualsiasi violazione dei suoi diritti in quanto persona.

A riguardo possiamo sottolineare un’ulteriore distinzione tra violenza di genere e violenza domestica: con la prima si specifica una violenza generata da differenze sociali tra uomini e donne, mentre la seconda è vissuta più in ambito privato e si matura con atti quotidiani di sopraffazione e minaccia.

E qui ci tengo a far comprendere un principio fondamentale e che il massacro del Circeo ci ha, nella sostanza, lasciato in eredità: non esiste un profilo di “donna maltrattata” e non è assolutamente vero che la violenza si sviluppa con più facilità tra ceti economici meno abbienti o in situazioni di degrado sia culturale che sociale, dove si fa abuso di alcool o sostanze stupefacenti.

Tutte le donne possono essere vittime, maltrattate dal proprio partener in casa o subire molestie, stupri, in qualsiasi situazione esse si trovino, che sia per strada o in un locale o a lavoro: la causa non dipende dalla donna, dal suo comportamento e meno che mai da “provocazioni”, come vestire una minigonna o essere “disinibita”, ma dall’aggressore e dalla convinzione fuorviata che, essendo egli superiore rispetto alla donna, è giustificato dal trattarla come fosse un oggetto o una sua proprietà, senza che abbia il diritto di decidere di se stessa.

La violenza di genere sulla stampa e nei tribunali

Un altro fenomeno che il massacro del Circeo mise in evidenza in modo eclatante è il linguaggio abusante e colpevolizzante nei confronti della vittima che, nello specifico, viene considerata imputata sia dall’opinione pubblica, sia dallo stesso sistema giudiziario, come se avesse lei stessa istigato al reato.

Quasi sempre sui giornali la narrazione è focalizzata sulla vittima e non sull’aggressore, se ne stigmatizzano i comportamenti sociali e morali: è il cosiddetto “victim blaming”, ovvero ritenere la vittima responsabile della violenza subita, sia in modo diretto, sottolineando ad esempio se vestita con abiti “provocanti”, sia in modo indiretto, andando a indagare in modo morboso sullo stile di vita della donna e i suoi comportamenti.

Inoltre, quasi sempre la donna diventa un oggetto passivo del racconto, come a voler sottolineare lo stato di totale dipendenza dall’uomo, a ciò si aggiunga l’uso di parole che si allontanano dal concetto di violenza di genere: “raptus”, gelosia” sono termini che inducono a pensare a una perdita momentanea di controllo, negando di fatto una realtà di dominio e continua prevaricazione, una escalation di violenza quotidiana, fino all’atto finale del femminicidio.

Non meno grave è il linguaggio che è stato analizzato in più di 280 sentenze, da un’inchiesta condotta su un arco di tempo che va dal 2010 al 2020 (non stiamo più parlando degli anni ’70 ma dei giorni nostri!).

Spesso le forze dell’ordine, avvocati e giudici, tendono a sottolineare la litigiosità in una coppia, spostando in questo modo il focus dal vero problema, ossia la violenza domestica, quasi a voler sottintendere una relazione di reciprocità e non di dominanza dell’uomo sulla donna: la dinamica tra due coniugi che litigano è ben diversa da quella in cui uno dei due è totalmente sottomesso e minacciato dal più forte ed è, in percentuale elevata, quasi sempre la donna a dover subire il potere violento del compagno.

E torna anche qui, nelle aule dei tribunali, il contrasto di forma nell’uso delle parole “raptus” e “gelosia”: la gelosia la si intende, dal comune pensare, come fosse una forma di “amore”, quale stereotipo ancora molto radicato nella nostra cultura, ma nelle situazioni di violenza, dove l’aggressione è quasi sempre premeditata, non possiamo parlare certo di amore e nemmeno di gesto incontrollato di follia, quanto piuttosto di un esercizio del controllo sulla donna che perde, nella relazione abusante, il diritto a una propria individualità.

Conclusione

La lotta alla violenza di genere è stata, di fatto, combattuta in politica da donne parlamentari illuminate che hanno sovvertito una legislatura passata misogina e lesiva dei diritti della donna in quanto persona, ma non basta.

Le leggi ci sono, ma le donne hanno paura a denunciare perché non si sentono tutelate né dalle istituzioni, né tanto meno dalla società.

È fondamentale un cambio di rotta a livello culturale e di pensiero, spogliando di retorica fuorviante la comunicazione e il linguaggio che tutti noi sui social network, non solo la stampa e gli operatori giudiziari, trasmettiamo, quando si tratta di violenza di genere: è il pregiudizio che va combattuto e tutto ciò che tende a deresponsabilizzare o ad attenuare la responsabilità degli uomini che si macchiano di reati di violenza fisica, psicologica e di stupro.

Nonostante le conquiste per una reale emancipazione femminile in ogni area della vita, se non cambia il pensiero patriarcale dominante, ci sarà sempre un’asimmetria di forza tra uomo e donna, una discriminazione sociale profonda che rende, di conseguenza, diversi i destini delle due facce della stessa mela.

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