SE QUESTA È UNA DONNA

“Considerate se questa è una donna/
senza capelli e senza nome/
senza più forza di ricordare/
vuoti gli occhi e freddo il grembo/
come una rana d’inverno”

(Primo Levi)

Premessa

Desidero in prima battuta sottolineare i principi fondamentali basilari non solo per la Giornata della Memoria, per non dimenticare la Shoà, ma anche per non dimenticare ogni essere umano o popolo che venga sopraffatto in nome di un potere più forte.

L’orrore dei lager nazisti è male assoluto, non ha pudore, non ha sesso, non ha bandiera, a quei tempi non riconosceva alcuna memoria tanto da essere considerato banale per quanto indispensabile alla sopravvivenza della razza ariana.

E oggi?

La stessa banalità sopravvive in nome di molteplici verità assolute che leggi umane hanno sottoscritto in nome di una sovranità che non conosce pietà: i lager esistono ancora, come esiste ancora la disperata lotta di esseri umani alla ricerca di un luogo dove esistere con dignità.

La memoria è uno scavo nelle nostre coscienze dinanzi a poteri che per troppo tempo abbiamo nascosto sotto la nostra indifferenza e a cui non possiamo più sottometterci nel silenzio: non si chiamano oggi nazismo o fascismo, ma esistono e dominano le libertà dei singoli e di intere comunità, che sia mafia o integralismo religioso o patriarcato o razzismo o capitalismo, la matrice è la stessa.

La memoria è un’umanità perduta che chiede a gran voce, ogni giorno, giustizia.

Considerate se questa è una donna, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno”.

Le parole di Primo Levi ci riportano a una prospettiva del male che tuttora esiste e che, in quel particolare contesto storico, ha trovato una sua feroce declinazione: la violenza sulle donne.

A tal proposito consiglio la lettura del libro “Le donne nella Shoà” di Bruna Bartolo in cui sono narrate le prime testimonianze di cinque “ritornate” dall’inferno: sono storie meno ricordate, ma che focalizzano il dolore nell’inumana volontà di depredare la femminilità dal corpo, annientando qualsiasi processo vitale di rinascita che è insito nella natura stessa dell’essere donna.

Ogni evento felice biologico si ribalta e il concepimento diventa esso stesso occasione di dolore e morte.

Immaginiamo il contesto storico in cui è stata progettata la “risoluzione finale” e proviamo a riconoscere la condizione di pudore rigoroso a cui la donna veniva educata: esporre le prigioniere denudate agli sguardi maschili, feroci e irriverenti, era già un primo atto di espropriazione femminile secondo la logica del lager, spogliandole di una dignità a cui non avranno più diritto, anche in caso di salvezza.

Per noi è inconcepibile, ma l’essere donna era già di per sé un’aggravante, soprattutto se gravida o in condizione di poter procreare. A tal proposito venivano praticate sterilizzazioni, aborti o, se le gravidanze erano portate a termine, i nascituri erano condannati a morire dal primo respiro di vita.

Non c’era alcuna considerazione per la maternità: le donne con bambini venivano spesso indirizzate subito alle camere a gas e chi era gravida cercava di nasconderlo sperando di salvarsi.

Nelly Sachs, premio Nobel per la Letteratura nel 1966, scrisse questi versi in memoria dei bambini strappati alle loro madri nei lager nazisti:

Tutto fermenta nei nidi dell’orrore

orribili guardiane hanno sostituito le madri

paura allatta i bimbi

e non la madre”

Il grembo materno diventa luogo di morte, la madre sarà carnefice e unico nutrimento la paura.

Nella memoria storica esistono però anche narrazioni che ci testimoniano quanto l’essere donna significasse armonia e forza mentale.

Nel suo libro Bruna Bartolo ha riportato una storia che potrebbe essere identificata quale miracolo d’amore in un luogo infernale: è la storia di Frida Misul, una cantante lirica ebrea che allietava le sue compagne di prigionia con il canto; un giorno venne brutalmente picchiata da una kapò che le impose poi di cantare. Frida, sopraffatta dal dolore, si sforzò di intonare prima la canzone “Mamma”, poi l’Ave Maria e infine la romanza della Madama Butterfly. Durante la notte di Capodanno la kapò la chiamò e le diede di nascosto un pezzo di pane e una fetta di carne che Frida divise con le sue compagne.

La carnefice e la vittima, nella grazia di essere donne, in quell’unico frangente, strinsero un’alleanza segreta, un fiore nascente tra le spine atroci del supplizio.

Ma non è un miracolo, è un legame femminile particolare che in rare circostanze può irradiare un cambiamento e sovvertire la prospettiva degli eventi.

La donna conosce nell’intimo strade impensabili verso la rinascita perché ha innato un istinto e una forza tale da emergere dalle voragini in cui le circostanze avverse la scaraventano: è ciò che ci distingue dall’essere uomo, quel potere insito di essere portatrici di vita che produce “anticorpi” contro la morte stessa e ci spinge inseguire la salvezza oltre le nostre fragilità fisiche.

L’Olocausto delle donne italiane

La giornalista Stefania Delendati qualche anno fa, in occasione della Giornata della Memoria, con un suo articolo ha riportato l’attenzione sulla particolare condizione delle donne nel lager femminile di Ravensbrück, un olocausto che passa inosservato, ma che le internate, donne “non conformi” quali ebree, omosessuali, molte affette anche da disabilità fisiche e mentali, deportate politiche, attraverso una rosa impressa in un biglietto o una lettera, hanno desiderato testimoniare.

In particolare si distinsero le storie di due deportate politiche, Mirella Stanzione e Lidia Beccaria Rolfi, le prime italiane non ebree a varcare quella soglia: a loro fu assegnato il triangolo rosso e subito si resero conto che scopo principale della logica in quel lager era di cancellare ogni dignità e identità delle donne.

La paura sovrasta le prigioniere, la paura dell’ignoto, se ci sarà un dopo e come sarà quel dopo, perché la consapevolezza è una soltanto: se mai usciranno vive, fuori da quel luogo non saranno più le stesse.

La storia del lager di Ravensbrück è molto complessa e Stefania Delendati offre al lettore un resoconto crudo e dettagliato della condizione femminile in quel luogo di crudele martirio, ma voglio soffermarmi su cosa ha significato per le nostre protagoniste italiane la salvezza, il ritorno in patria: l’orrore te lo porti addosso, l’orrore lo ritrovi a casa tua.

Le italiane liberate si scontrarono subito con l’insensibilità degli alleati perché giudicate di essersi prostituite ai nazisti per ottenere favori e nessuno credette al fatto che in quel lager le donne venissero stuprate e picchiate, tanto che non ebbero nemmeno diritto al pacco che la Croce Rossa offriva ai deportati salvati.

Non meno duro fu il rientro in patria dove furono vittime degli stessi infami pregiudizi.

Mirella, a cui è stata proposta la cittadinanza onoraria insieme a Liliana Segre nel comune di Castelraimondo a Macerata, racconta:

“Nessuno mi ha chiesto cosa sia successo. Nessuno…ancora qualcuno non sa che sono stata in un campo di concentramento, perché siamo arrivate a provare quasi un senso di vergogna nel dire di essere state in un lager tedesco. Tutto questo naturalmente era accentuato dal fatto che ero una donna per cui mi sentivo dire – ma che cosa avrai mai fatto? Sia con tedeschi, sia con i russi e gli americani…”

Questa fu la triste realtà che accolse Mirella e che la indusse al silenzio per oltre cinquant’anni prima di trovare la forza di testimoniare, libera dalla vergogna di essere una donna.

Per Lidia non fu diverso il destino che l’accolse: lei, che era conosciuta con il nome in codice di “maestrina Rossana” in quanto staffetta partigiana dall’età di diciotto anni e che subì indicibili torture dopo l’arresto e prima di essere deportata nel lager nazista, tentò di raccontare le sue sofferenze ai compagni amici, ma trovò solo un muro di indifferenza, giudicata addirittura una prostituta. Anche i familiari, che l’accolsero con calore, restarono diffidenti dinnanzi ai suoi ricordi e di certo i cambiamenti politici e sociali non le furono di sostegno. In Italia alcuni ruoli di potere rimasero in appannaggio di personaggi con un passato fascista, come nel personale scolastico, pertanto a Lidia fu impedito di tornare a insegnare, secondo una consuetudine non scritta che voleva isolare i “testimoni scomodi”.

Solo nel 1958 Lidia entrò a far parte, quale unica donna, dell’Associazione Nazionale Ex Deportati e nel secondo congresso trovò nei giovani presenti, desiderosi di conoscere la verità dei campi di sterminio, quella solidarietà che la esortò ad aprirsi. Lidia ci ha lasciati nel 1996 e i suoi ricordi, scritti su carta rubata e con un mozzicone di matita, divennero l’arma bianca con cui, da instancabile testimone, oppose contro l’indifferenza: quei fogli furono poi portati dal figlio a Ravensbrück perché chi visita quei luoghi possa leggerli.

Le ceneri rinvenute nei forni crematori, testimonianza silenziosa di sconosciute anime, siano esse ebree, disabili, omosessuali, deportate politiche, sono state raccolte in una grande fossa su cui sorge un roseto.

Conclusione

La rosa fu un simbolo per ritrovarsi riconoscibili in mezzo a un orrore che le voleva “pezzo d’immondizia” secondo le parole di Primo Levi, ma che in una strada futura possano tutte loro, le donne dell’Olocausto, essere ricordate e amate quali donne straordinarie che mai hanno consegnato al persecutore l’anima pura di essere Madri per l’umanità intera.

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