DI BIANCO VESTITA

La mia storia tra le corsie di un ospedale

Ricordo come è iniziata questa avventura che ha cambiato la mia vita, sia come professionista che come donna: a un certo punto ho desiderato dare un significato di “generoso altruismo” ai miei giorni che si susseguivano tutti uguali, chiusa in me stessa dentro un piccolo ufficio a copiare numeri su una tastiera, senza mai alzare lo sguardo sulle persone intorno a me, a stento ci si salutava o si scambiava una parola al momento della pausa caffè.

Allora ero ancora molto giovane quando, dopo un primo fallimento negli studi universitari perché la scelta intrapresa non corrispondeva più alle mie aspettative, mi presi un anno di riflessione per capire cosa fare della mia vita. E mio padre, capo informatico al Ministero delle Poste, mi inserì come praticante presso un piccolo ufficio privato di un suo amico a svolgere servizi di informatizzazione dati: accettai giusto per guadagnare qualcosa, ma ve lo assicuro, quel lavoro era una vera palla, una tortura!

Oggi ho rivalutato la tecnologia, ma allora la mia mente romantica era alla ricerca del contatto umano nella professione, ma cosa cercavo in realtà?

Un giorno fui invitata a una cena tra amici della parrocchia dove offrivo il mio contributo come catechista per gli adolescenti della Cresima e conobbi lei, Cinzia, una piccola donna, alta un metro e una caciotta (perché era tonda e paffuta, dalla carnagione bianco latte e mi ricordava appunto una caciotta), ma tosta da far paura perché scelse, non solo di essere medico chirurgo, già una sfida nei primi anni Ottanta, ma addirittura neurochirurgo nella Roma dei “baroni della medicina”, impensabile.

Rimasi incantata dai suoi racconti di vita ospedaliera, durante le guardie in pronto soccorso e le notti in corsia, esperienze vissute insieme alle infermiere che le insegnarono cosa volesse dire prendersi cura di un ammalato.

Le persone non sono identificate in una “malattia” da cui guarire e la cura non si confina all’interno di una prescrizione o di un intervento.

Infatti le infermiere mostrarono a Cinzia come avvicinarsi al paziente, alle sue paure, ad abbracciare le ansie che lo tormentano, ad aprire lo sguardo oltre la pelle: cuore, cervello, tutti gli apparati sono governati in segreto da un organo invisibile che si chiama anima e un’infermiera la incontra ogni giorno durante il giro tra le corsie, mentre praticano le cure giornaliere, parlando, ascoltando, sopportando…

Avete notato che ho parlato al femminile perché nei reparti gli uomini infermieri erano ancora una presenza rara a quel tempo, questo perché fino al 1973 la scuola professionale infermieristica era aperta soltanto alle donne: possiamo definirlo un pregiudizio all’incontrario perché si credeva che solo le donne avessero quella particolare sensibilità e attitudine per prendersi cura degli ammalati. Quindi negli ospedali incontravi tanti, tantissimi uomini medici e chirurghi e tante, tantissime donne infermiere.

Con gli anni imparai che nelle professioni sanitarie non esiste distinzione di genere, sia che sei medico o che sei infermiere: concentrazione, resistenza, sangue freddo e rapidità in situazioni critiche, quando decidi della vita delle persone, sensibilità, dedizione, cuore… non sono definiti dai tuoi cromosomi XX o XY, ma dalla consapevolezza e dalla determinazione di farcela ogni giorno in quella dannata corsia dove hai scelto di offrire il meglio di te.

La scelta

E un giorno scelsi di diventare infermiera professionale e non mi accontentai di una scuola qualsiasi, proprio no (allora non esisteva ancora la laurea triennale in Scienze Infermieristiche, ma si frequentavano Scuole di Diploma universitario dove, dopo tre anni tra studi e tirocinio, conseguivi l’abilitazione a esercitare): volli entrare nella prestigiosa Scuola “Armida Barelli” alla Cattolica del Sacro Cuore, Ospedale Gemelli, l’ultima avanguardia dove resistevano ancora i “reparti scuola”, corsie di addestramento comandate da “dolcissime” suore caposala didattiche che ci massacravano ogni giorno per inculcarci in testa l’arte della cura al paziente, a confronto un sergente dei marines sembra Mary Poppins, ve lo assicuro!

Me lo ricordo ancora il primo giorno di tirocinio quando,di bianco vestita, i capelli nascosti dentro una veletta inamidata, varcai la soglia della corsia di un reparto di chirurgia generale femminile: una decina di campanelli accessi, le mie compagne più anziane che correvano come matte, ma dov’ero capitata? Un inferno, volevo fuggire.

Invece rimasi fino alla fine dei tre anni, imparai sul campo, più che sui libri, le tecniche e i valori che sono alla base di una professione assistenziale e sul campo imparai a scoprire in me ciò che nessuno avrebbe mai potuto insegnarmi: l’empatia, entrare in contatto con la malattia e sentirtela addosso, ti imprime nell’anima la storia che respira dietro quello sguardo che implora ascolto perché ha paura.

E di paura ne avevo tanta anche io, non c’era giorno che non mi sentissi inadeguata e incapace di prendermi cura di tante vite, paura di non poterle salvare tutte e questa frustrazione mi schiacciava il petto al ritorno a casa, al sicuro nel mio quotidiano familiare.

Ma il coraggio lo acquisii nel corso degli anni, avvicinandomi alle storie nascoste dietro una diagnosi, quando di notte un paziente non dorme e ti cerca, lo vuole da te quel coraggio che non ha e tu puoi solo dedicargli una pillola di tempo perché il lavoro è frenetico, ma che vale molto più di un ansiolitico, credetemi.

La mia storia d’infermiera non è stata solo fatica e sacrificio, ricordo con gioia anche momenti di goliardia tra le stanze della corsia, giusto per allentare la tensione ed è stato importante questo senso di leggerezza, soprattutto all’inizio della carriera, quando mi trasferii a Milano, all’Ospedale San Giuseppe dove ho esercitato la professione in diversi reparti: non ce l’avrei fatta se non avessi sentito accanto a me il calore dell’amicizia di giovani colleghi come me, appassionati e generosi.

Forse con il tempo, quando alla fatica di reparto si assomma la fatica di trovare lo spazio e l’energia per essere una buona moglie e una madre attenta, l’entusiasmo viene meno e ti sembra che il mondo ce l’abbia con te: corri e corri, sempre di bianco vestita, senza più veletta e con casacca e pantaloni che ti fanno sembrare un sacco di patate, i soldi a fine mese non bastano mai e hai appena litigato con il compagno di vita, ma non importa, devi sempre e comunque sorridere e dimenticarti cosa hai lasciato a casa, ci penserai più tardi, se te ne resta la forza.

Non posso raccontarvi tutto, scriverei un libro e forse un giorno lo farò, però una cosa ve la voglio raccontare e che riguardano gli ultimi anni di lavoro in ospedale, prima che lasciassi la professione, una storia che ha cambiato il corso della mia esistenza, anche se l’ho compreso poco tempo fa, forse più consapevole della donna che sono diventata.

Io e Luisa

Ero stata distaccata dalla corsia e dai turni, per problemi di salute, nel Day Hospital di Oncologia dove imparai davvero molto, forse più che in quasi vent’anni di lavoro, non solo da un punto di vista professionale e tecnico, ma umano e fu in particolare una donna malata di cancro al seno metastatizzato e in fase terminale a offrirmi un nuovo senso alla mia esistenza, si chiamava Luisa: ero in saletta impegnata a trovarle uno straccio di vena sulla mano per infondere una dose di quella chemioterapia che non le avrebbe salvato la vita, ma le avrebbe infuso la speranza e invece fu lei a iniettare a me una dose di forza, incredibile!

Mi raccontò la sua vita (già, in saletta d’infusione per esorcizzare la morte si raccontavano storie di vita), rimasta vedova giovane con tre figli, la fatica di crescerli bene, l’amore per una tata extracomunitaria rimasta incinta e sola che accolse con sé e divenne parte della famiglia, la forza di affrontare la perdita di un nipote per un tumore al cervello, tanto da fondare in seguito un’Associazione per sostenere i bambini ricoverati oncologici e, infine, la determinazione a combattere la sua ultima guerra perché la vita è troppo preziosa e vale la pena viverla fino all’ultimo respiro.

Ed io lì a sudare per non perder l’unica vena rimasta perché Luisa alla sua chemio lei non avrebbe mai rinunciato, anche se faceva un male cane e vomitava l’anima tornando a casa, ma lei non si perdeva d’animo e voleva sapere di me, come stavo, mentre soffriva per la tortura che le infliggevo.

Che dovevo dirle? Avevo le mie tribolazioni, ma, in confronto alla sua storia, le mie giornate sembravano un giro di giostra e così le raccontai della passione che avevo per le bambole che condividevo con la mia bambina secondogenita e cercai di alleggerire quel momenti critici di dolore.

Poi, la settimana dopo, quando tornò per l’ultimo ciclo, si presentò in saletta con un libro e una bambola di stoffa e mi disse:

“Questo è per te, è una pigotta (è una bambola tipica lombarda) degli anni Settanta e questo è un romanzo di Sveva Casati Modignani che racconta la storia di amicizia tra due donne diverse di età ed estrazione sociale che imparano insieme cosa significa amare grazie ad una bambola antica che unisce le loro vite. Leggila, ti piacerà.”

A piacermi mi piacque e tanto, ma solo dopo tanti anni, quando ormai non esercitavo più da parecchio tempo ed ero guarita da una grave forma di depressione, compresi cosa aveva voluto trasmettermi Luisa con quel dono e peccato che non potetti mai ringraziarla abbastanza, essendo che morì dopo pochi mesi da quell’ultima chemio: la mia passione non erano certo le bambole, ma scrivere le storie e lei me ne aveva regalata una bellissima che mi accompagna ancora oggi che ho i capelli color argento e le mie figlie sono donne.

In conclusione

Io credo di essere votata, forse sin dalla nascita, ad accogliere le storie degli altri, ad intrecciarmi ad esse, a farle rinascere perché non siano dimenticate.

E allora non avrei dovuto essere infermiera, vi direte o esercitare tutti quei mestieri che ancora oggi mi aiutano a sopravvivere, ma scrittrice e sarei potuta diventare famosa, chi lo sa, perché tanti anni fa l’editoria era diversa da oggi.

Ma non scherziamo!

Io sono stata e sarò sempre infermiera nel cuore, senza quei vent’anni vissuti in corsia di bianco vestita, non avrei mai potuto arrivare dove sono adesso perché uno dei valori fondamentali della scrittura è la cura: non la cura delle patologie fisiche, ma la cura dell’anima e questo valore l’ho appreso correndo come una matta a spegnere campanelli e a mettere padelle, proprio come è iniziata questa storia quel primo giorno da allieva infermiera.

Tutto parte da lì, dai bisogni semplici e basilari delle persone che soffrono, è da lì che nascono le storie più belle e profonde, dall’accoglienza e dalla cura ed io, seppur con indosso tutti colori dell’arcobaleno, non smetterò mai di correre di bianco vestita tra le corsie della mia vita e tra la gente che incontro lungo il cammino.

Lascia un commento